L’approccio One-Health

Obbligatorio interrogarsi sulle ripercussioni del loro utilizzo

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Continuano gli approfondimenti sul tema dell’antibiotico-resistenza del nostro giornale con un prezioso contributo di Arianna Tavanti, professoressa di Microbiologia, Dipartimento di Biologia, dell’Università di Pisa.

L’insorgenza di batteri resistenti a più tipi di antimicrobici rappresenta oggi un’allarmante problematica diffusa a livello globale, in quanto i microrganismi sono capaci di adattarsi rapidamente ai cambiamenti di ambiente, alla presenza di sostanze antibiotiche, alle specie ospiti, sviluppando velocemente nuovi meccanismi di resistenza, anche verso gli antibiotici di più recente messa a punto.

Purtroppo, la scoperta e sintesi di nuovi antibiotici utilizzabili per il trattamento di infezioni sostenute da microrganismi resistenti è sempre più complessa e, parallelamente, l’efficienza degli antibiotici esistenti contro tali microrganismi è diminuita.

Una volta che i batteri acquisiscono resistenza all’antibiotico, trasmettono quella caratteristica sia ai batteri da questi derivati tramite la loro moltiplicazione, sia a batteri di specie diverse, tra cui anche le specie patogene.

Si stima che almeno 2 milioni di persone negli Stati Uniti e circa 400.000 pazienti in Europa sviluppino ogni anno infezioni da ceppi batterici resistenti.

Recentemente ha destato particolare preoccupazione la circolazione a livello mondiale di batteri resistenti alla colistina e batteri produttori di metallo β-lattamasi (ceppi NDM-1), isolati soprattutto negli animali che producono alimenti per l’uomo.

Anche se l’ultimo rapporto del centro europeo per il monitoraggio delle infezioni (ECDC), pubblicato nel 2020 e relativo gli anni 2014-2018, ha evidenziato un lieve miglioramento nella frequenza di isolamento di ceppi multi-resistenti proprio negli animali della filiera alimentare. Ad esempio, è stata osservata una riduzione nella circolazione di ceppi di Escherichia coli produttori di β-lattamasi ad ampio spettro (ESBL-AmpC) in circa il 40% degli stati membri. Questo è un dato incoraggiante, considerando che tali ceppi sono associati nell’uomo ad infezioni gravi e difficili da eradicare. Nonostante i dati evidenzino un trend positivo, è di fondamentale importanza non abbassare la guardia e mantenere uno stretto monitoraggio di tali microrganismi, seguendo l’approccio definito one health (salute dell’uomo, animali e ambiente).

La presenza di batteri patogeni resistenti a molte molecole antibiotiche in alimenti di origine animale come latte e carne, infatti, ha purtroppo subito un incremento negli ultimi anni su scala globale, anche a seguito di un uso eccessivo di antibiotici nelle filiere produttive animali.

Questi batteri son altamente resistenti a più classi di antibiotici; sono trasmissibili all’uomo non più solo attraverso contatto interumano o per contagio in ambiente ospedaliero, ma anche attraverso alimenti contaminati, con il grande rischio che la popolazione interessata non sia limitata a categorie di soggetti a rischio (e.g pazienti ospedalizzati), ma estesa all’intera popolazione.

Questo potrebbe avere delle ripercussioni sulla composizione del microbiota intestinale umano, cioè quel complesso ecosistema all’interno del quale coesistono approssimativamente 100 trilioni di batteri, funghi, virus e parassiti in equilibrio con il sistema che li ospita e che è fondamentale per il mantenimento di un buono stato di salute e della efficacia delle difese immunitarie.

Pertanto, un improprio impiego della terapia antimicrobica potrebbe comportare una alterazione del microbiota intestinale, portandolo a trasformarsi, fin dalla prima infanzia, in una riserva naturale di fattori di resistenza.

Appare evidente quindi come il nostro sforzo nel controllare la circolazione di batteri antimicrobico resistenti debba essere implementato ed esteso ad un costante monitoraggio di uomo, animali e ambiente, ed affiancato da una incessante spinta verso lo sviluppo di strategie antimicrobiche alternative.

Arianna Tavanti

Università di Pisa

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