Continuano gli approfondimenti sul tema dell’antibiotico-resistenza del nostro giornale con un prezioso contributo di Massimiliano Marvasi, ricercatore in Microbiologia generale dell’Università di Firenze.
Sir Alexander Fleming, nello storico articolo pubblicato nel 1929, scoprì che una straordinaria mistura rilasciata da particolari ceppi fungini del genere Penicillium era capace di inibire la crescita di Stafilococchi. Tale mistura chiamata Penicillin inibiva batteri patogeni, non aveva effetti dannosi sugli animali, era solubile in acqua e chimicamente stabile. Una panacea. Alla consegna del premio Nobel, nel 1945, Fleming avvertì però l’umanità di un pericoloso effetto collaterale di queste molecole: «Non è difficile rendere i microbi resistenti alla penicillina esponendoli a concentrazioni non sufficienti per ucciderli».
Dal 1945 a oggi è in corso una “guerra agli armamenti” tra l’uomo e i patogeni batterici e fungini in merito allo sviluppo delle resistenze agli antimicrobici.
L’industria farmaceutica e la clinica medica e veterinaria si confrontano continuamente cercando nuovi antimicrobici, classi di molecole capaci di sconfiggere microorganismi patogeni che inesorabilmente si armano ogni giorno di nuove variazioni genetiche, trasferimenti di DNA, rendendo i microrganismi resistenti. Negli ultimi anni la ricerca non ha prodotto nuove classi di antimicrobici, l’ultima nuova famiglia risale infatti al 1986 con la scoperta della daptomicina. I ricercatori, a oggi, lavorano su vari fronti per scoprire nuovi antimicrobici: tali molecole vengono cercate negli ecosistemi, nei metagenomi, elaborate con tecniche di ingegneria genetica. La scoperta di nuovi antimicrobici procede lentamente e le resistenze stanno diventando sempre più comuni e pericolose: i microorganismi stanno vincendo?
L’ European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) attraverso la piattaforma “Surveillance Atlas of Infectious Diseases” permette al lettore di osservare in tempo reale la drammatica situazione delle resistenze in Europa e particolarmente in Italia. A oggi sono in sviluppo protocolli di gestione degli antimicrobici come la Antimicrobial Stewardship o One Health Approach con lo scopo di combattere le resistenze, osservando il problema da un punto di vista multidisciplinare: rafforzare la diagnostica e trattamenti mirati, eliminare l’uso profilattico, ricalcolare le dosi, valutare l’impatto ambientale e sostenere l’educazione all’uso responsabile di queste molecole per tutti i fruitori, per riportare alcuni dei punti.
Ma c’è un altro aspetto di cui si conosce poco, certamente sorprendente, e riguarda l’uso che la natura fa degli antimicrobici.
Negli ultimi anni, lo studio degli ecosistemi ha portato a individuare nicchie ecologiche che usano efficacemente gli antimicrobici da almeno 60 milioni di anni. Alcuni insetti (come le formiche) vivono in commensalismo con batteri capaci di produrre antimicrobici per difendere il nido da parassiti fungini. Come hanno fatto questi insetti a usare gli antimicrobici per milioni di anni, senza che i parassiti fungini sviluppassero resistenze, tanto comuni nel milieu clinico? Una recente branca della scienza si è dunque interessata alla comprensione di questi meccanismi, cercando di individuare le strutture e i funzionamenti di questi ecosistemi e possibilmente di traslare tale conoscenza per un efficiente uso nell’ambito umano e veterinario.
Gli studi sono solo all’inizio ma hanno già portato ad alcune sorprendenti scoperte.
Le formiche del genere Acromyrmex usano misture di antimicrobici prodotte da batteri simbionti. È stato proposto che mescole di antimicrobici possano rallentare o perfino impedire lo sviluppo delle resistenze di funghi parassiti. La strategia principale si basa nel mantenere organismi sensibili all’interno della popolazione dei patogeni, pur avendo pressione selettiva. Le mescole non devono necessariamente essere tutte molecole antimicrobiche potenti, ne bastano poche efficaci. I batteri associati alle formiche usano per esempio un pool di antimicrobici che sono sottili variazioni chimiche attorno a una struttura centrale. Tale mistura si rivela vincente nel lungo periodo, rallentando lo sviluppo di resistenze. La produzione di tali misture si avvale anche di un meccanismo di variabilità: la variazione genetica. Si ipotizza che i geni per la biosintesi di queste misture possano riarrangiarsi o mutare con una cadenza sufficiente per costruire sempre nuovi pool molecolari (nei tempi evolutivi, naturalmente).
Siamo di fronte a una sfida unica, dove si dovranno definire come questi modelli usati dalla natura possano essere traslati nel mondo clinico. I modelli matematici e le prove in laboratorio non mancano, ma la concreta applicazione richiede ancora lo studio attento della natura e dei suoi meccanismi più minuti ma sorprendentemente potenti.
Massimiliano Ravasi, Università di Firenze