Da capitale del Marchesato a capitale della Cultura. Saluzzo (e il suo territorio) è candidata a diventare erede di Parma (2021), Procida (2022), Bergamo e Brescia (2023) nella competizione promossa dal Ministero per la promozione delle bellezze turistiche, culturali e paesaggistiche del nostro Paese.
Ma in attesa della decisione della giuria, il comune ai piedi del Monviso può già fregiarsi di un altro prestigioso titolo: è la capitale della frutticoltura piemontese, polo attrattivo di un’areale diffuso che si estende per oltre 15 mila ettari, strategico nell’ecosistema agricolo dell’intera Europa.
Ad amministrare la città c’è il sindaco Mauro Calderoni, al suo secondo mandato, convinto che la vocazione agricola di questo territorio possa essere accompagnata da una riscoperta turistico-culturale dell’ex marchesato e dell’intera pianura cuneese.
Sindaco, come si coniugano agricoltura e turismo? Qual è la ricetta?
«L’attenzione al cibo è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni. Le persone scelgono con maggior cura, alla ricerca di genuinità e salubrità. Prediligono la filiera corta, il chilometro zero. Qui siamo nella terra per eccellenza del settore primario, un vero giacimento di prodotti agricoli. Dalla frutta al latte, dal vino alla carne. Credo che per chi proviene da aree metropolitane (le grandi città), ma anche per chi arriva dall’estero digiuno della nostra cultura culinaria, immergersi in questa realtà, direttamente sul campo, possa essere un’esperienza stimolante».
Una sorta di fascino della terra, dunque?
«Proprio in questi giorni si sta compiendo uno di quei riti antichissimi che continuano ad affascinare: la transumanza, la salita agli alpeggi delle mandrie. Una tradizione che si è conservata nei secoli, che ha una finalità precisa, ma che diventa anche un evento di richiamo per curiosi e appassionati. L’agricoltura ha una sua liturgia che, se adeguatamente valorizzata e promossa, può essere un volano per altre attività».
Come raccontare questa liturgia?
«Facendo memoria e tesoro della nostra storia. Ricordando quello che era la peculiarità di questa terra ai piedi delle montagne, dove la caparbietà e l’intuizione di chi ci ha preceduto ha fatto sì che si potesse sviluppare un’economia agricola fiorente. Penso che serva rispolverare le nostre radici, ricordare che il saluzzese è quello che è perché nei secoli passati qualcuno decise di salire sul Monviso e costruire il primo valico-transfrontaliero della storia oppure perché un giorno si misero a scavare canali e fossati per convogliare l’acqua in pianura per consentire le coltivazioni, così da permetterci di diventare la capitale della frutticoltura».
Ecco, perché Saluzzo si è ritrovata a essere la capitale della frutticoltura?
«Da avventura pionieristica nel dopoguerra, la coltivazione intensiva di frutta ci ha trasformato nel primo areale piemontese. Tutto è iniziato con le mele, seguite dalle pesche, dall’actinidia e, ultimamente, da ciliegie e piccoli frutti (mirtilli, lamponi e more). Ci sono poi eccezionalità del nostro territorio, come il ramassin della Valle Bronda (presidio Slow Food) oppure i vigneti autoctoni delle colline (Pelaverga e Quagliano), che sono un unicum di cui andare particolarmente fieri».
Una grande produzione che rende questo territorio un protagonista sul mercato. Non è così?
«C’è un grande interesse da parte del mercato italiano ed estero per i nostri prodotti agricoli, ma credo che ci siano ancora spazi da occupare. Non tanto, o non solo, in termini quantitativi, ma in logica di rete. Come amministratore, m’interessano le ricadute complessive nelle comunità: abbandonare le individualità, abbracciando una logica di territorio. Serve fare sinergia, non solo commercialmente. Penso, ad esempio, alla gestione della manodopera affrontata in modo emergenziale: è compito della politica dare degli indirizzi e affrontare la questione, ma serve la collaborazione del sistema».
Come trasformare questa ricchezza agricola in altro valore aggiunto?
«Questa è la sfida. Se parliamo tecnicamente di trasformazione della frutta, devo riconoscere che questo è proprio il tassello che manca per chiudere il ciclo, trattenendo altro valore aggiunto sul territorio.
Manca un’industria in grado di assorbire la produzione di quest’areale. Purtroppo solo poche aziende, ad esempio Biraghi relativamente al comparto latte è una di queste, sono riuscite a creare un ciclo virtuoso, lavorando sul nostro territorio la materia prima prodotta qui. In senso più ampio, trasformare l’agricoltura – ma allargando lo sguardo anche l’ambiente e la natura – in attrattiva turistica è sicuramente la strada da percorrere».
Parla di strade, ma proprio l’isolamento infrastrutturale del cuneese è sempre stato indicato come uno svantaggio per lo sviluppo economico della provincia. Non è d’accordo?
«Solo in parte. È anche stato, in qualche misura, una fortuna. Quello che noi, nati in queste terre, rimpiangiamo (come la presenza di strade veloci e grandi infrastrutture) è ciò che invece attrae chi proviene dall’estero o dalle grandi città. Qui c’è la tranquillità di un tempo, le tradizioni di una volta, ma coniugata con l’innovazione di chi non si fa spaventare dalle sfide».
A proposito di sfide, a breve ne partirà una straordinaria: la 100 miglia del Monviso, un ultra trail di corsa in montagna, con più di 8.000 metri di dislivello, in un palcoscenico eccezionale come i versanti italiano e francese del Re di Pietra.
«Questo è un evento in cui crediamo molto e per il quale abbiamo ottenuto il sostegno di diversi sponsor locali, come la Biraghi. È un appuntamento sportivo che richiamerà atleti, con supporter e famiglie, da ogni parte d’Italia e non solo. È un’occasione unica per far conoscere le bellezze del nostro territorio, i nostri cibi, la nostra storia».