Il dibattito sul latte crudo

Studi sulla trasmissione dei batteri con il consumo del prodotto

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Continuano gli approfondimenti sul tema dell’antibiotico-resistenza con un prezioso contributo della dottoressa Tiziana Civera, professore ordinario Ispezione degli Alimenti di Origine Animale dell’Università di Torino.

Il consumo di latte crudo e di prodotti derivati è oggetto di dibattito da vari anni. Da un lato c’è chi lo difende, portando l’attenzione sulle caratteristiche qualitative e di sapore, legate alla qualità dell’ambiente di produzione, e al possibile effetto positivo per la salute svolto da peptidi e lipidi bioattivi contenuti in essi; dall’altro esistono  però studi epidemiologici e progetti per valutare in modo integrato i possibili benefici e gli effetti negativi sulla salute derivanti dal consumo di latte crudo vaccino. Questi hanno evidenziato in modo inequivocabile l’impossibilità di controllare il rischio legato ad alcuni microrganismi responsabili di malattia alimentare quali Escherichia coli vero-citossici o Campylobacter, con ripercussioni sulla salute del consumatore.

Recentemente l’attenzione si è spostata sul ruolo del latte crudo nella diffusione di microrganismi antibiotico resistenti. Se è vero che i batteri antibiotico resistenti, così come i meccanismi alla base di questa loro caratteristica, siano diffusi da millenni, è indubbio che la loro prevalenza si è rapidamente accresciuta in particolar modo negli ultimi decenni in rapporto alla disponibilità di antibiotici sia per uso umano, sia per le filiere produttive – animali e non solo -, determinando così un rilascio di residui di antibiotici, batteri antibioticoresistenti e geni di antibiotico resistenza nell’ambiente e negli alimenti. 

Il comparto latte rientra appieno in questo scenario, anche se non è ancora completamente chiaro l’impatto che l’uso degli antibiotici in questo settore ha avuto nello sviluppo dell’antibiotico resistenza, a differenza di quanto è stato definito per gli allevamenti di polli e di suini, principali utilizzatori di antibiotici.

Tuttavia occorre ricordare che in molte aree del pianeta vi è un grande uso di antibiotici a scopo terapeutico nelle lattifere, tra cui ricordiamo anche i trattamenti in asciutta per le mastiti.

Solo in anni recenti, proprio come risposta all’emergenza dell’antibiotico resistenza, l’approccio sanitario è stato rivisto in molte nazioni, Italia compresa, con misure indirette, che spaziano dalla selezione genetica alle buone pratiche di gestione igienica dell’allevamento e della mungitura, biosicurezza, benessere animale e altro. 

Oltre alla riduzione e revisione dell’uso degli antibiotici negli animali in produzione, si sta ponendo attenzione anche ad interventi che possano ridurre il rischio legato alla presenza non solo di residui di antibiotici nel latte e negli alimenti derivati, ma anche alla presenza ed alla conseguente trasmissione attraverso il loro consumo di batteri diventati antibiotico resistenti o multiresistenti, intendendo con tale termine l’acquisizione di resistenza a più classi di antibiotici.

Per quanto riguarda i residui di antibiotici (i cui valori massimi consentiti sono stabiliti dal Reg (UE) 37/2010) sono state completate varie ricerche per valutare in particolar modo l’effetto di trattamenti termici, usando varie combinazioni standardizzate come la pastorizzazione, sterilizzazione, UHT. Non tutti i trattamenti del latte crudo sono però efficaci allo stesso modo per ridurre l’incidenza di molecole antibiotiche nel latte. Limitando la panoramica agli antibiotici impiegati nel settore lattifere, i beta lattamici, quali penicilline e cefalosporine, sono parzialmente inattivati (20-30%) dalla pastorizzazione, sia bassa che alta, mentre macrolidi e chinoloni sono termoresistenti, osservandosi un’inattivazione fra il 5 e il 13% per i primi, e inferiore al 6% per gli altri. Trattamenti a temperature di sterilizzazione (120°C per 20 minuti) o UHT (140°C per 10 sec) comportano una riduzione dei macrolidi e dei beta lattamici intorno al 90%, mentre la riduzione dei chinoloni è intorno al 20-30% a seconda della molecola. Lo stesso discorso si può fare anche per altre classi di antibiotici, ma l’elemento di novità che deve essere sottolineato è che esiste (finalmente) un ampio dibattito nella comunità scientifica sul ruolo che potrebbero svolgere quantità residuali, sia pure legali, assunte quotidianamente attraverso l’alimentazione nello sviluppo dell’antimicrobico resistenza.

Altro tema è la riduzione del possibile contatto del consumatore attraverso l’alimento con microrganismi antibiotico resistenti. Il Microbiota del latte crudo è molto complesso, con una popolazione che si arricchisce di fonti ambientali, umane, animali. I trattamenti con antibiotici possono indurre, come già detto, la comparsa di resistenze a specifiche classi di farmaci, in particolar modo nei batteri a localizzazione enterica. Queste specifiche resistenze possono poi trasmettersi all’interno della popolazione intestinale dell’individuo. 

Vari esperti hanno richiamato come il consumatore possa farsi parte attiva nel ridurre i rischi della diffusione di ceppi resistenti e multiresistenti attraverso un consumo di latte e derivati sempre sottoposti a trattamento termico. Se il calore da un lato potrebbe essere poco efficace nella riduzione dell’eventuale residuo di farmaco, questo rappresenta invece un sistema adeguato per inattivare i microrganismi, inclusi quelli che possano apportare fattori di resistenza agli antibiotici nel consumatore finale.

Tiziana Civera,

Università di Torino

Tiziana Civera, Università di torino