Quelle cascine a una strada di distanza, un tempo appartenute alla nobiltà che nei secoli passati aveva abitato il castello della borgata, erano un’occasione da non lasciarsi sfuggire. E nonostante la resa di quei terreni fosse notoriamente scarsa (già in un documento del 1753 si parla di territori “mediocremente coltivati, con buona qualità per campi e prati, infima per boschi e gerbidi”), nessuno aveva paura di sporcarsi le mani e faticare.
Così, nel 1925 Giovanni e Bernardo lasciarono gli altri cinque fratelli Baiotto al casolare di famiglia a Riva di Chieri per trasferirsi a Menabò, una delle tre borgate di Cellarengo, paese ai confini tra le province di Asti, Cuneo e Torino.
Quando acquistò la nuova cascina, Giovanni era già papà di Antonio (classe ’21), e presto lo sarebbe diventato nuovamente di Caterina e Teresa, amorevolmente accudite dalla mamma Margherita Vergnano. Erano gli anni della dittatura fascista e della paura, ma anche della voglia di offrire un futuro ai propri figli.
Una vita semplice, fatta di sacrifici, di lavoro nei campi e nella piccola stalla, dove una decina di animali rappresentava la ricchezza più grande.
Tuttavia, quando la guerra bussò alla porta, Antonio non poté sfuggire: fu arruolato nell’esercito, spedito al fronte e catturato. Dopo una lunga prigionia in Corsica, al termine del conflitto, riuscì a tornare a casa. Ma a riabbracciarlo non c’erano tutti. La malattia aveva strappato troppo presto da questa vita la sorella Caterina, appena dodicenne.
Con un Paese da ricostruire, per Antonio era arrivato il tempo di prendere in mano le redini del destino. Conobbe Monica Trinchero, di qualche anno più giovane (classe 1925), e con lei scrisse i capitoli più importanti della sua vita. Dopo il matrimonio, arrivarono i figli: il primogenito Giovanni (1950), Maria Teresa, Margherita, Tommasino, Pierino, Caterina e il più giovane Giuseppe (1964).
Una famiglia numerosa, dove ognuno aveva il suo compito e ci si aiutava a vicenda. Non c’era mattina che, prima di inforcare la bicicletta per andare a lezione nella scuola della borgata, non si passasse in stalla per aiutare papà a mungere, togliere il letame e sparpagliare il fieno. Lavori che richiedevano braccia, gambe e tanta buona volontà.
Fu nel 1964, poco dopo la nascita di Giuseppe, che Antonio decise di costruire una nuova stalla per le vacche. I bidoni di latte lasciati ai bordi della strada che tagliava in due la frazione erano raccolti da un furgoncino marchiato Biraghi, che ogni giorno passava da quelle parti per trasportarli al caseificio di Cavallermaggiore. Un viaggio che da quel momento – seppure completamente rivoluzionato nelle modalità – non si è più interrotto.
A tavola si era sempre in molti, tante le bocche da sfamare. Per arrotondare le entrate in cascina e diversificare le attività, a metà degli anni Settanta Antonio decise d’investire nell’acquisto di una mietitrebbia: durante la stagione della trebbiatura, occupato praticamente ogni giorno da mattino a sera, a sostituirlo in cascina c’erano i figli ormai grandi.
Per Giuseppe, un’infanzia passata tra animali e campi, fu naturale continuare sulla strada tracciata dal padre. Archiviata la pratica della naja (svolta nell’Aeronautica, prima a Macerata e poi a Novara), ritornò in azienda per occuparsi in prima persona dell’attività insieme agli altri tre fratelli (le tre sorelle, dopo essersi sposate, si erano trasferite).
Un nuovo ricovero per l’ingrasso delle bestie arrivò nel 1978 (stesso anno in cui i fratelli Pierino e Tommasino costruirono la nuova casa), ma è nel 1993 – dopo la realizzazione di un’altra stalla per le manze (’91) – che l’azienda si ammodernò definitivamente con la creazione della sala mungitura e della stalla a stabulazione libera per circa 120 capi.
Cresceva l’azienda, si allargava la famiglia.
Conosciuta sulla pista da ballo de “Le Cupole”, nel 1996 Patrizia Lanfranca diventò la compagna di una vita di Giuseppe, regalandogli la gioia di diventare papà di Elena (1998) e di Stefano (2005). Un altro tassello per crescere ancora.
Così come continuavano a crescere i terreni da coltivare, che dovevano fare i conti con la scarsità d’acqua, tra i problemi principali dell’areale. Grazie all’intraprendenza dei fratelli, che negli anni costituirono un consorzio irriguo, fu creata una vera e propria rete sotterranea di tubazioni – lunga quasi 7 chilometri – che, utilizzando l’acqua piovana raccolta nei numerosi laghetti artificiali sparsi nelle proprietà, riusciva a irrigare tutti i terreni circostanti. Fino a qualche anno fa, prima che i cormorani ne minacciassero l’esistenza, gli invasi erano utilizzati anche come peschiere per l’allevamento delle tinche, pesci d’acqua dolce particolarmente apprezzati dal mondo della ristorazione.
Nel 2006, i quattro fratelli presero la decisione di gestire in autonomia le proprie attività e dividersi: Giovanni e Giuseppe restarono all’interno della stessa azienda, mentre Tommasino e Pierino ne costituirono altre. Si costruirono nuove trincee e concimaie, utilizzando però sempre le vecchie stalle. Oggi, con il figlio Stefano già inserito all’interno dell’azienda agricola, nella cascina di borgata Menabò trovano posto circa 290 capi in totale (cui si affiancano i suini allevati per conto terzi), con una gestione totalmente familiare.