Il professor Luca Chiesa spiega il fenomeno dell’incremento della resistenza agli antimicrobici
Lo scorso 14 novembre si è tenuto, presso la scuola di Medicina Veterinaria dell’Università a Grugliasco, il convegno organizzato dall’Ordine dei Medici Veterinari della Provincia di Torino dal titolo “Il concetto One-Health nella filiera lattiero casearia: la gestione del corretto uso degli antibiotici per il contrasto alla Anti Microbico Resistenza”. Presenti docenti dell’Università degli Studi di Milano del Dipartimento Scienze veterinarie per la salute, la produzione animale e la sicurezza alimentare “Carlo Cantoni” (VESPA) e Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche e Odontoiatriche(SBCO), Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Torino e della Scuola di Medicina veterinaria.
Al responsabile scientifico dell’evento Luca Chiesa, professore associato di Ispezione degli Alimenti di Origine Animale (dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione Animale e la Sicurezza Alimentare, Università degli Studi di Milano), abbiamo chiesto un parere sul tema del convegno e sugli spunti per il futuro che da questo appuntamento sono emersi.
Perché il tema dell’antibioticoresistenza è diventato d’attualità nell’agenda pubblica?
«La resistenza agli antimicrobici (AMR) è la capacità dei microrganismi di resistere ai trattamenti antimicrobici. L’uso scorretto o l’abuso di antibiotici sono considerati le cause della crescita e della diffusione di microorganismi resistenti alla loro azione, con conseguente perdita di efficacia delle terapie e gravi rischi per la salute degli animali e dell’uomo.
Può anche contribuire a determinare la diffusione e l’incremento di patogeni in contesto di sicurezza alimentare, qualora si considerino ad esempio le lavorazioni casearie a latte crudo».
C’è stato un incremento di questo fenomeno negli ultimi periodi tale da giustificare quest’attenzione dell’opinione pubblica?
«Attualmente le più importanti organizzazioni mondiali della sanità stimano che circa 25.000 persone muoiano ogni anno per infezioni causate da batteri multiresistenti e i costi relativi sono stimati a circa 1,5 miliardi di euro all’anno. Negli Stati Uniti d’America, le infezioni da patogeni resistenti agli antimicrobici pesano sul sistema sanitario per oltre 20 miliardi di dollari all’anno e generano più di 8 milioni di giorni di degenza aggiuntivi. I costi sociali annuali superano i 35 miliardi di dollari».
Perché la resistenza dei batteri agli antibiotici (anche quelli non agenti di malattia) è un problema?
«Il fenomeno dell’antibioticoresistenza è un “fenomeno naturale”, che ha accompagnato l’evoluzione dei batteri, incluse le specie a vita libera, nella competizione per le fonti trofiche. L’uso degli antibiotici nel settore umano e veterinario non ha fatto altro che amplificare enormemente il fenomeno, basato sulla selezione di organismi in grado di sopravvivere in un determinato ambiente sfavorevole, grazie a mutazioni genetiche o per acquisizione da altri organismi di geni di resistenza già “precostituiti”.
Attualmente, la quasi totalità delle classi di antibiotici impiegata nella terapia umana trova riscontro in analoghe molecole registrate per uso veterinario. La disponibilità ed i quantitativi utilizzati nel settore veterinario hanno favorito nel corso degli ultimi decenni l’emergenza e la diffusione di resistenze a tutte le classi di antibiotici utilizzate in batteri di origine animale, inclusi i batteri zoonosici (Salmonella, Campylobacter) ed opportunisti (Escherichia coli, Enterococcus sp.)».
Quali sono i rischi per la salute, umana e animale, dell’antibiotico-
resistenza?
«Da qualche tempo l’industria farmaceutica ha diminuito la capacità di investire nella ricerca di nuove classi di antibiotici e di portarne a registrazione di nuovi. Per tali motivi, si raccomandava di promuovere estensivamente l’uso “prudente” degli antibiotici, per poterne preservarne nel tempo l’efficacia terapeutica sia nel settore umano e veterinario.
Nel 2005 a Canberra fu indetta per la prima volta una riunione di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sugli antimicrobici di importanza critica per la salute delle persone (Critically important Antimicrobials, i cosiddetti CIA), che dovesse classificare l’importanza
di varie classi di antibiotici in rapporto a specifici criteri.
Tale classificazione, in continua evoluzione, raggiunse una forma più matura nel 2007 e nel 2011.
Nello specifico, gli antibiotici che soddisfano entrambi i seguenti criteri:
1. L’antibiotico in questione è l’unica o una delle terapie limitate
disponibili, per trattare gravi malattie umane;
2. L’antibiotico in questione è usato per trattare malattie causate da organismi che possono essere trasmessi all’uomo da fonti animali o ambientali, oppure malattie umane causate da organismi che possono acquisire geni di resistenza da fonti animali o ambientali, sono classificati “Critically Important Antimicrobials” (CIA). Tra i CIA, purtroppo, sono comprese anche alcune classi di antibiotici registrati per uso veterinario e per varie specie zootecniche in EU: Cefalosporine di 3ª e 4ª generazione, Fluorochinoloni e Macrolidi. Si raccomandò già da allora di limitarne l’utilizzo negli animali a casi selezionati e per la terapia individuale».
In quale “settore” questo fenomeno è più diffuso: umano, animale
o ambientale?
«L’antibiotico resistenza è diffusa sia in ambito umano sia animale, con impatto anche sul sistema ambiente se si considerano elementi quali lo smaltimento di sottoprodotti di lavorazione, gestione dei reflui ed entrambi, tramite le deiezioni, hanno impatto sull’ambiente circostante, tramite
il quale i batteri resistenti possono diffondersi su larga scala».