La crisi del mais ha pesanti ripercussioni sul comparto mangimistico, in termini sia di costi che di approvvigionamento, e a cascata sull’intera filiera zootecnica.
Il calo delle superfici coltivate, scese al minimo storico di 564 mila ettari, e il pessimo andamento climatico dell’annata trascorsa, caratterizzato da una siccità senza precedenti, hanno ridotto la produzione italiana ad appena 4,7 milioni di tonnellate di mais da granella, ovvero alla stessa produzione del 1972, con gravi problemi di qualità del prodotto stesso. In base ai dati Istat, infatti, i rendimenti unitari sono crollati mediamente del 23%. L’andamento negativo ha coinvolto tutti i maggiori produttori europei di mais con un calo complessivo pari a 21 milioni di tonnellate nella sola Unione Europea (-29%), con riduzioni che, tra i principali fornitori del mercato italiano, arrivano al 50% in Romania, al 57% in Ungheria e al 75% in Moldavia, mentre in Ucraina le ultime stime segnalano un calo superiore al 50%. Solo la Spagna, sia pure in calo dell’11%, presenta rese superiori a 10 tonnellate a ettaro, mentre la produzione è aumentata, grazie all’incremento delle superfici, solo in Polonia (+16%).
«Il mais è una delle colture che maggiormente risentono delle mutate condizioni imposte dal cambiamento climatico e in particolare dei periodi siccitosi prolungati e delle carenze o dal costo elevato delle risorse idriche. Per questo motivo il futuro della coltura nel nostro Paese, soprattutto quello del mais da granella, sarà sempre più legato alla vocazione dei territori, alla disponibilità della risorsa idrica e all’agricoltura di precisione», afferma Nicola Pecchioni, direttore del Crea (Cerealicoltura e Colture Industriali).