PIOBESI TORINESE
Un paese dentro al paese: un forno comune per cuocere il pane, una cappella dove ritrovarsi per pregare. Più di quaranta persone a gestire la più grande cascina di Piobesi Torinese, Cascina Tetti Aia, accomunate dallo stesso cognome: Cosso.
Perché in quell’enorme proprietà alle porte di Piobesi Torinese, Lodovico Cosso era riuscito a riunire – a metà dell’Ottocento – tutti i rami della famiglia: fratelli, cugini e nipoti. Una grande comunità che, con sacrificio e sudore, conduceva a mezzadria l’azienda agricola.
Decine di braccia ad aiutare, ma anche di bocche da sfamare che presto – anche a causa di una violenta grandinata che compromise completamente i raccolti – dovettero cercare altrove di che mangiare.
Se una parte della famiglia si dedicò alla gestione del consorzio agrario, Lodovico si trasferì nella cascina parrocchiale, accanto a quello che oggi è il municipio: una grande proprietà dove far crescere la famiglia, quando il secolo stava per concludersi.
UN’ORDINAZIONE MANCATA
Tra i figli, Giovanni (classe 1870) aveva una predilezione per lo studio: intraprese il percorso seminariale ma quando fu il momento dell’ordinazione, il richiamo alla terra vinse.
Così tornò in cascina dove con Maria Brussino (1875) iniziò una nuova vita. Ebbero due figli: Marghertia e Lodovico (1896), che portava sulle spalle l’eredità (e il nome) del nonno. Nel frattempo la famiglia si era trasferita perché la Curia e il Comune avevano deciso di costruire una scuola al posto della vecchia cascina della parrocchia.
LE GUERRE
Prima di diventare padre, insieme alla compagna Maria Savio, Lodovico conobbe le atrocità della guerra: partì per il fronte durante il primo conflitto mondiale, combattendo contro il nemico austriaco; un’esperienza drammatica, che lo segnò profondamente e che – dopo essere stato insignito del titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto – tramandò alle generazioni successive, ai figli e ai nipoti che vedevano in quest’uomo un modello da seguire per la sua attenzione alla famiglia e alla comunità.
Oltre che impegnarsi per provvedere alla famiglia, Lodovico era molto attivo nel paese: era stato presidente della Cassa Mutua Previdenziale della Coldiretti, ruolo che poi fu ricoperto anche dal figlio Michele.
Non erano rare le volte in cui, quando i venti di guerra tornarono a soffiare forte sull’Europa, nella cascina di Lodovico si presentassero soldati o ufficiali dell’esercito per verificare che tutto fosse in ordine. Così, con la paura che scorreva nelle vene, Lodovico chiedeva ai piccoli di nascondersi e non fare rumore. Qualcuno si rannicchiava nell’armadio, altri scendevano giù in cantina.
Ebbe 6 figli: Giovanni (1920), Maria, Giovanna, Michele (‘25), Giuseppe (‘27) e Margherita (‘32).
Anche loro conobbero le assurdità della guerra. Il più vecchio fu reclutati per la campagna d’Africa: qui, assegnato alle cucine, imparò il mestiere di macellaio che, una volta tornato in Italia perché rimasto ferito, trasformò poi come professione.
Michele quella guerra non la voleva combattere. Poco più che ragazzino, frequentò gli ambienti partigiani e fu messo a guardia della linea ferroviaria per avvisare su eventuali movimenti. Ma quando alla stazione si fermò un convoglio di soldati tedeschi, non riuscì a scappare: fu arrestato e portato in cella a Torino. Riuscì poi a fuggire e ritornare a Piobesi.
LA RICOSTRUZIONE
Nel dopoguerra, con un Paese da ricostruire, ogni fratello prese la sua strada: Giovanni, dopo una breve parentesi come dipendente in municipio, scelse quindi di dedicarsi completamente alla macelleria, mentre Michele e Giuseppe continuarono nell’attività agricola.
Nel 1948, a dar manforte in cascina arrivò Marianna Grandis, moglie di Michele, che diede alla luce tre figli: Lodovico (1949), Maresa e Mario. L’attività cresceva, aumentava il numero di capi accuditi, tra cui alcuni esemplari di toro, particolarmente apprezzati alle fiere di paese.
In quel mondo, Lodovico si sentiva a casa: fin da bambino, prima di prendere la cartella e inforcare la bici per andare a scuola, entrava nella stalla; accudiva la mandria, mungeva, si dedicava anche ai lavori più pesanti. In classe si presentava solamente alla fine dell’autunno, quando i ritmi della campagna rallentavano e papà Michele gli lasciava più tempo a disposizione per studiare. La cascina era la sua dimensione, lì si trovava a suo agio.
Ecco perché quando nel 1973 decise di entrare in fabbrica per arrotondare le entrate ci rimase soltanto tre mesi: non poter vedere il cielo per tutta la giornata era un sacrificio impossibile da sopportare. Ritornò in campagna, in via Cernaia, a prendersi cura degli animali e a mungere le bestie nella stalla. Nel 1975 il matrimonio con Maddalena Astegiano, che gli regalerà la gioia di diventare papà prima di Loretta, poi Davide (purtroppo deceduto pochi giorni dopo la nascita), Patrizia e di Marco (1982). Furono anni in cui, oltre alla famiglia, crebbe anche la voglia di spostare l’azienda, ormai troppo stretta all’interno del paese.
Nel 1978, il fratello Giuseppe si sposò con Luigia Baldi e si ritirò dall’azienda agricola: la sua quota venne acquistata e rilevata da Lodovico e Maddalena.
Nel 1984, con i proventi della vendita di circa metà degli animali, Lodovico coronò il sogno di realizzare una nuova stalla in un terreno in via del Castelletto, dove poco alla volta costruì anche casa e il ricovero per gli attrezzi. Ma un’altra prova l’attendeva: nel 1985, a causa di un risanamento aziendale, fu costretto a vendere tutti gli animali e ripartire da zero; in quell’occasione, decise di convertire completamente l’allevamento alla produzione di latte, acquistando 74 vacche frisone.
Da quell’eredità, terminati gli studi di ragioneria, è partito Marco, che oggi rappresenta la continuità nell’azienda agricola. Azienda che ora conta un centinaio di capi (60 in lattazione), con 40 ettari coltivati, tra terreni di proprietà e in affitto dall’istituto diocesano per il sostentamento del clero di Torino, e si basa esclusivamente sulla manodopera di chi – a distanza di quasi duecento anni – continua a portare con orgoglio quello stesso cognome.